Storie di piazze in movimento

La prima volta che ho visto Berlino pioveva e Potsdamer Platz era una distesa di terriccio marrone. Un bambino piangeva inconsolabile perché era caduto sbucciandosi le ginocchia. Quel luogo, quella piazza, il muro in quella piazza ormai non ci sono più. Si trovano solo nei nitrati d’argento del ‘Cielo sopra Berlino’.

Le piazze sono i luoghi migliori dove scoprire i cambiamenti di una città. Perché le piazze non hanno confini anche quando gli edifici ne delimitano da sempre la forma.

Nelle piazze si muove la storia. Anche se la memoria di un evento può segnare indelebilmente la vita di una piazza. E un giorno piovoso, un 28 maggio e un anno, il 1974, possono cambiare per sempre il significato e la vita di una piazza.

Una piazza osserva le persone che l’attraversano, che sostano, parlano, ridono, s’arrabbiano, lavorano. Una piazza osserva un cameriere che porta un caffè, si perde ad annusare la fragranza delle spezie di una bancarella, sente sul proprio cemento lo scivolare impertinente di uno skateboard.

Una piazza osserva le persone ma continua a guardare dritta davanti a sé. Verso delle colonne che da secoli s’immergono nel cielo. Una piazza guarda davanti a sé per guardare il proprio passato antico. Come piazza del Foro.

Una piazza può cambiare insieme agli alberi che la circondano. D’estate può avere in testa un cappello verde, in autunno un tappeto giallo ai piedi, in inverno mostrare la sua spoglia fragilità. Come piazza Tebaldo Brusato.

Una piazza può farsi anche vezzeggiativo e diventare piazzetta. Aprirsi dopo un portico e chiudersi come fosse un cortile. Come piazzetta Bruno Boni. Può essere un punto di partenza ai piedi di una salita per inerpicarsi verso un castello. Come piazzetta Tito Speri. Oppure un buco che nasce all’improvviso tra i vicoli e l’ombra dei vecchi muri di una chiesa. Come piazzetta San Giorgio.

Una piazza può prendere vita ritagliandosi tra edifici di vetro e ferro. Appena uscita dal plastico di uno studio d’architettura. Come piazza Monsignor Almici.

Una piazza è anche un luogo incerto che nasce tra incroci stradali e che diventa piazzale. Dove c’è un incontro tra i corpi delle persone e i veicoli in movimento, dove la forma dello spazio si delinea tra la frenata di un’auto, la sosta di un autobus e il guizzo veloce di una bicicletta. Come in piazzale Cesare Battisti.

Una piazza può non esserlo ancora. Ma essere in divenire. Sono gli spazi che abitano le nuove periferie. Dove la piazza crescerà insieme agli alberi appena piantati e sotto le scarpe dei bambini che non sanno ancora camminare. Come a Sanpolino.

Le piazze si muovono e non stanno ferme. Cambiamo nome, sono piazze, piazzette, piazzali, piazze non ancora nate. Come si muove la tua piazza?

Informazioni su un viaggiatore senza guida

Non mi è mai piaciuto il termine viaggio, l'ho sempre utilizzato poco. L'ho sostituito con vagabondaggio, peregrinazione, spostamento, pellegrinaggio. Giorgio dice che lo facevo perché volevo nascondermi, far sembrare che facessi qualcosa di diverso da quello che facevo. In effetti, leggere Sebald non mi ha aiutato. Anch'io avrei voluto essere un vagabondo saturnino come lui e creare i suoi intricati, commoventi labirinti. Ma non ci sono mai riuscito. Anche se Giorgio, il mio editore per trent'anni, mi ha detto che me la sono sempre cavata molto bene. “Lo sai quanta gente le tue guide hanno accompagnato?” Già, dall'introduzione geografica, alla storia delle città e dei paesi, dai monumenti più significativi ai consigli gastronomici, fino alla fedele mappa finale. Per me oggi il viaggio è finito. Forse l'ho fatto per troppo tempo. Ed è tempo di fermarsi. Almeno con il corpo, almeno per un po'. L'ho deciso un giorno, all'improvviso. Giorgio c'è rimasto male. Mi ha detto che le mie guide si vendono bene. Credo che sia un po' preoccupato per me. Io non lo sono. L'ho deciso un giorno in una libreria, circondato da tutte le guide che avevo scritto. Ne ho aperta una a caso "...le prime ore del pomeriggio sono le migliori per un’escursione ad Arthur’s Seat, il vulcano a forma di cono estinto..." Certo Arthur's Seat, e le suole di gomma che si sporcano di terra vulcanica. E poi "...ci allontaniamo dal vociare turistico per giungere a calli e campielli contornati da case alte e in rovina...". Naturalmente, il quartiere ebraico di Venezia. Ed ecco un indice, Helsinki, Tampere, Oulu, la Finlandia. Ma tutte quelle parole era come se non fossero state le mie parole. Era come se non mi restituissero i posti in cui ero stato. Era come se non m'appartenessero. Forse è giunto il momento di scrivere il mio viaggio, di riscrivere i viaggi che avevo vissuto. Mi serve un posto e penso di averlo trovato qui, in questa città, a Brescia. Mi serve un posto dove annotare, dove dare forma alle colline su cui ho camminato, ai ciottoli su cui sono inciampato, alla sabbia che mi è entrata nelle scarpe, ai venti che mi hanno accarezzato e sferzato la pelle, al rimbombo dei miei passi nella sala vuota di un museo, allo stupore di fronte ad un cantiere che ha inghiottito la memoria di un pezzo di città. Mi serve un atlante. Gli atlanti mi sono sempre piaciuti. Mi piace vedere rappresentare il mondo sulla carta attraverso un sistema codificato di linee e colori. Mi da sicurezza. Ma questo sarà il mio atlante, senza schemi, senza regole, perché i viaggi che ci raccontano non ne hanno. Un atlante di viaggio in cui ritrovare la mia vita e scoprire una città in movimento.

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